Conosciuta con il nome di “agricoltura naturale”, la teoria pratico-filosofica sviluppata in Giappone da Masanobu Fukuoka dalla metà del ‘900 ha contribuito ad aprire la strada a metodi più rispettosi e umani di lavorare la terra.
La rivoluzione del filo di paglia, pubblicato in Italia nel 1980, rappresenta un riassunto introduttivo della visione di Fukuoka, nota anche come pratica del “non fare”.
“Io credo che una rivoluzione può cominciare da questo filo di paglia solo. A prima vista questa paglia può sembrare leggera e insignificante. Nessuno penserebbe che abbia il potere di scatenare una rivoluzione. Ma io ho cominciato a capire il peso e il potere di questa paglia. Per me questa rivoluzione è molto concreta.”
Nato nel 1913, studente di patologia vegetale all’Istituto Tecnico Agrario di Gifu, Fukuoka aveva iniziato a 25 anni a lavorare alla dogana di Yokohama occupandosi dell’ispezione dei vegetali che entravano e uscivano dal paese. Ma una malattia e una profonda crisi segnarono a un certo punto la sua vita. Lo colpì uno stato di depressione tale da spingerlo a lasciare il lavoro. “Potei riconoscere che tutte le concezioni a cui avevo aderito, la nozione stessa di esistenza, erano vuoti artifici” ricorda Fukuoka pensando a quel periodo.
Poi un giorno, all’improvviso, un’intuizione illuminò a sua vita dandole nuovo senso: la natura, da sola, è in grado di produrre cibo e sostentamento per gli esseri umani, senza bisogno di forzare l’equilibrio del suo ecosistema con tecniche e interventi particolari. Naturalmente questa visione era del tutto in controtendenza rispetto alle pratiche dell’epoca, che nei campi andavano sostituendo le macchine al lavoro umano e introducevano l’uso di sostanze chimiche per ottimizzare la resa dei raccolti. Quella di Fukuoka era una concezione che per molti versi ricordava le tecniche agricole impiegate dai popoli nativi di diverse aree geografiche prima dell’arrivo degli occidentali e della cosiddetta “civilizzazione”.
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My Italian Farmers
Fukuoka si era infatti reso conto che se nell’immediato il lavoro umano e la tecnologia potevano dare dei risultati in agricoltura, nel lungo periodo portavano a un impoverimento della terra riducendone la fertilità. In un terreno non fertile le piante si ammalano più facilmente e perdono le loro sostanze nutritive, rendendo necessario l’uso di fertilizzanti e di altre sostanze. Il cibo ottenuto da un terreno troppo lavorato è un cibo degradato.
Forte di questa nuova consapevolezza, Fukuoka decise di tornare al podere di famiglia. Il padre, un grosso produttore di mandarini, accettò di buon grado di affidare il frutteto al figlio e di mettere alla prova le sue nuove intuizioni. Ma i primi esiti furono un completo fallimento. I rami degli alberi di mandarino si intrecciarono, gli insetti attaccarono le piante e l’intero frutteto si seccò nel giro di poco tempo.
“Scoprii che se si applica questa maniera di pensare tutt’a un tratto, ben presto le cose non vanno molto bene. In questo caso si ha abbandono, non agricoltura naturale”.
Il padre, scioccato dai catastrofici risultati del giovane, impose a Fukuoka di cercarsi un altro lavoro per “ridisciplinarsi e rimettersi in senso”. Fukuoka lavorò allora come ricercatore nel campo delle malattie e degli insetti per altri otto anni prima di riprendere quel cammino interrotto quando era un giovane pieno di entusiasmo ma privo di esperienza.
La prima lezione appresa da Fukoka fu quindi che bisogna concedere tempo alla terra per ritornare al proprio equilibrio, abituandola gradualmente a ritrovare la propria autonomia naturale.
“La ragione per cui le tecniche avanzate sembrano necessarie è che l’equilibrio naturale è stato precedentemente così sconvolto a causa di quelle stesse tecniche, che la terra è diventata tale da non poter fare a meno di loro.”
Partendo da questo presupposto, questa volta il percorso di Fukuoka si sarebbe rivelato più lungo e fruttuoso e i risultati ottenuti avrebbero confermato in pieno le sue prime intuizioni. Dopo vari tentativi, Fukuoka arrivò alla conclusione che non c’era alcun bisogno di arare, di dare fertilizzanti né di usare diserbanti e insetticidi. “A ben guardare sono poche le pratiche agricole veramente necessarie.” Da qui prese il nome la sua metodologia: agricoltura del “non fare”. Un concetto difficile da spiegare e da comprendere per la mentalità occidentale.
Dopo alcuni anni di esperimenti, Fukuoka scoprì che il riso e i cereali prodotti in questo modo arrivavano a dare la stessa quantità di raccolto, se non superiore, rispetto a quello che era possibile ottenere con le tecniche di coltivazione più moderne.
“La maniera normale di sviluppare un nuovo metodo è domandarsi: e se si provasse questo? O se si provasse quest’altro? (…) Io facevo il contrario. Cercavo un modo naturale di coltivare che si risolvesse nel rendere il lavoro più facile invece che più duro. E se si provasse a non fare questo? E se si provasse a non fare quest’altro? Era questa la mia maniera di pensare.”
Sarebbe superficiale ridurre la visione di Fukuoka all’idea che l’agricoltura naturale consista semplicemente nel “non fare nulla”. Leggendo La rivoluzione del filo di paglia si scopre immediatamente che il lavoro agricolo va fatto eccome. Semplicemente si sposta l’obiettivo: da una coltivazione fatta per domare e forzare la natura (secondo Fukuoka è assurdo e innaturale, per esempio, esigere che un terreno produca solo e unicamente cavoli), a una coltivazione in cooperazione con l’ambiente naturale, dove ogni specie, animale e vegetale, ha il suo posto e il suo preciso ruolo. Oggi siamo abituati a chiamare questo insieme armonioso di componenti naturali biodiversità.
Ci si potrebbe chiedere: ha davvero senso seguire gli insegnamenti di un uomo che ha sperimentato tecniche agricole in Giappone, dove il clima e le coltivazioni sono molto diverse da quelle di altre aree geografiche?
Se c’è un errore che si può fare nell’interpretare Fukuoka è tentare di imitarlo pedissequamente, trasformando le sue pratiche in regole assolute. Lui stesso ha sempre dichiarato di essere estremamente infastidito dai tentativi di imitazione da parte dei suoi studenti. “Domando invece che vivano semplicemente nella natura e si dedichino con impegno al loro lavoro quotidiano. No, non c’è nulla di speciale in me, ma quel che ho intuito è immensamente importante”.
Nel suo libro Fukuoka ci invita a scoprire a nostra volta, nel nostro ambiente, quel rapporto con la natura che porta a comprendere come collaborare con essa.